Poche volte mi è capitato di raccontare una morte improvvisa che lascia inermi, sbigottiti, increduli, per ciò che è avvenuto da un momento all’altro. Ebbene, mettendo da parte il legittimo dolore e i sentimenti che per forza di cose sfociano nella facile retorica, resta sempre il ricordo della persona che hai conosciuto, stimato, e che improvvisamente sparisce, non c’è più, volatilizzata oltre quel muro della vita che appartiene all’aldilà. Questo è successo pochi giorni fa a Siamak Khamnei, un medico dentista iraniano che prima di tutto è stato un gentiluomo di grande eleganza nei rapporti umani e in quelle relazioni che fanno sempre capo al rapportarsi con l’altro per apprendere, imparare, confrontarsi e magari scoprire il comune sentire della vita e dei suoi valori. Ho avuto la fortuna di intervistarlo e in quell’occasione ho scoperto un interlocutore particolare, diverso dagli altri per umanità e voglia di aprirsi, raccontarsi senza timore di andare oltre quella propria privacy che io, giornalista attento e rispettoso dell’altrui pensiero, non ho mai voluto forzare con le mie domande durante tutta la durata dell’intervista. Una narrazione della sua vita che mi è entrata dentro, conquistando in ogni sua risposta la mia sensibilità, quasi dimenticandomi per molti attimi che io ero l’intervistatore e Siamak l’intervistato. Sì, perché tra di noi, in quello studio dentistico di Venaria in cui ci siamo trovati per l’intervista, si era subito instaurato una sorta di idem sentire capace di intendersi fin dal momento in cui gli facevo la mia domanda, mentre lui partiva con la sua narrazione di vita, non tralasciando mai nessun particolare. E così ho continuato in una intervista che ricorderò per sempre per la sua unicità di intendere il rapporto tra giornalista e interlocutore che io, cronista di lungo corso, non avevo mai provato nelle tante interviste effettuate in carriera. Sì, perché in questa occasione era facile capire che avevo davanti una persona speciale.
Sapete, ho sempre pensato che l’intervista è come una partita a tennis, dove tu giornalista tiri la pallina al tuo interlocutore e se questi non te la ritorna vuol dire che non ha voglia di collaborare con te, o, peggio ancora, avverti dalle sue risposte che impera l’ipocrisia di chi nasconde legittimamente se stesso. E’ il gioco delle parti di pirandelliana memoria che tante volte ho riscontrato in tante interviste a personaggi importanti come, artisti, cantanti, politici, calciatori, arbitri di calcio e tanti altri. Ma con Siamak non è stato così! Con Siamak tutto filava liscio e sereno come lo scorrere del letto di un fiume, dove in qualche situazione si avverte l’emozione e quel groppo in gola che ti fa capire il momento di vita molto delicato. E tu, mentre ascolti, ne ricavi la stessa emozione da scrivere, da trasmettere agli altri, giammai dando l’impronta della morbosa curiosità fine a se stessa, ma limitandosi di fare un’intervista capace di fare riflettere, confrontarsi e quindi seguirne l’esempio di vita. Da Ahar – nell’Azerbaigian Orientale a Torino, passando attraverso mezzo mondo, attraverso molte situazioni di vita non sempre facili che ti fanno cadere e poi rialzare, talora anche a fatica, per costruire il tuo futuro.
Siamak è un vecchissimo nome che è presente nelle favole ed ha origini persiane. Il suo vero significato è “Uomo dai capelli neri”. Ma c’è stata una domanda, tra le tante fatte in quella esaustiva intervista a Siamak, che l’ha colpito in particolar modo: “Dottor Kamnei” – gli dissi – “Da ragazzo, quando ha capito la differenza tra il bene e il male?”: “Con questa domanda mitocca sul vivo di una esperienza paterna non facile, ma che poi per impulso ha creato l’opportunità di crescere e maturare in fretta aspetti diversi, nel distinguo fondamentale di ciò che è bene e ciò che è male”. Da qui è partita tutta una narrazione che si è intersecata tra fatti politici vissuti durante la rivoluzione dell’ayatollah Khomeyni, con cui l’Iran ha dovuto convivere a partire dagli anni ’79 e fino all’89, quando è poi nata la Repubblica Islamica. E mentre il ricordo di quegli anni difficili erano ancora vividi nella mente di Siamak ancora ragazzo, la sua narrazione è continuata con dovizia di particolari sul percorso di vita che lo ha portato prima in Canada, dove ha sfruttato la sua conoscenza della lingua inglese per guadagnare il suo primo stipendio. Poi l’esperienza negli Stati Uniti dove in Oklahoma ebbe un incontro con l’ambasciata. E poi via via verso l’Europa e l’Italia, a Perugia, dove si iscrisse all’Università degli stranieri assieme a suo fratello. Quindi il destino lo portò a Torino, dove quel giovane iraniano venuto da lontano ebbe tanta voglia di socializzare e ambientarsi.
“Ero ospite di questa bella città che mi ha subito accolto con benevolenza, ed avevo l’obbligo e il piacere di fare intendere alle persone che mi sono state accanto, il mio rispettoso ringraziamento per tutto questo”. Un’impronta umana che Siamak ha conservato per sempre nel suo io più profondo che ha estrinsecato nel rapporto con la gente, la sua gente, emblema quasi di un sentire il desiderio di rapportarsi, di dare senza la pretesa di avere, di ricevere in contraccambio. Ecco, questo era Siamak Kamnei, il medico dentista che ho avuto modo di apprezzare come persona che mi ha insegnato cosa significa incontrarsi, parlare, conoscersi e rispettarsi, facendo costruire l’amicizia anche dandosi del “lei”, così come ce lo davamo noi. E oggi che non c’è più, posso dire che già mi manca. Manca la sua presenza, manca quel suo modo di metterti sempre a tuo agio e manca pure quel – “Mi scusi ma adesso devo farle un po’ di male, durerà poco. Vedrà!” che tanto confortava i suoi pazienti mentre egli esercitava la sua professione di medico dentista. Questo e tanto altro ci mancherà di lui che ha lasciato un grande vuoto intorno a noi tutti che abbiamo capito il suo grande messaggio di umanità. E chissà, se non fosse andato via così improvvisamente, magari gli avrei chiesto quello che non saprò mai, quel tanto altro che Siamak si è portato via con sé.
Salvino Cavallaro